Il 14 settembre del 1968, i New Yardbirds partirono per Copenhagen, dove avrebbe avuto inizio l’ultimo tour degli Yardbirds ma, di fatto, il primo dei Led Zeppelin.
Le prove servirono sopratutto a creare le basi di quell’alchimia che avrebbe fatto la loro fortuna negli anni a venire, ma anche per capire che strada intraprendere nel corso delle date scandinave.
Si puntò inevitabilmente su alcuni classici degli Yardbirds, uniti a una serie di nuove idee, come una versione solo strumentale di quella che sarebbe diventata Communication Breakdown, la versione di Dazed And Confused di Page con un nuovo testo, un blues intitolato I Can’t Quit You Baby, oltre ad una serie di classici del blues e del rock ‘n’ roll (Elvis in primis) che i musicisti conoscevano alla perfezione.
Quei concerti si rivelarono fondamentali non tanto per far conoscere la nuova band, visto che chi assisteva ai concerti era convinto di trovarsi di fronte agli Yardbirds, ma per amalgamare l’affinità tra i quattro e per comprendere quali novità andassero perseguite, soprattutto in base alla reazione del pubblico scandinavo. Già dopo un paio di date, l’intesa tra Page e Plant era così elevata da creare momenti di pura estasi, come quando la voce di Robert finiva per seguire all’unisono quella della chitarra: «Accadde per la prima volta sul palcoscenico in Danimarca» ricorda Plant. «Non stavo cercando di cantare a tempo, ma la voce finiva per imitare la chitarra. Non c’eravamo dettati alcuna istruzione al riguardo ma venne fuori durante You Shook Me e ci mettemmo tutti a ridere».
Il ritorno in patria
Terminati gli show, il gruppo tornò in patria ancora più convinto delle proprie potenzialità e con diverso materiale pronto per essere registrato. Le cose in Scandinavia erano andate così bene, che lo stesso Jimmy Page si disse sconvolto dai progressi e dalla musica prodotta in quei giorni da una band che si conosceva soltanto da qualche settimana. Il problema maggiore restava quello del nome: era chiaro a tutti che non avrebbero più potuto utilizzare il vecchio moniker, quindi urgeva trovarne uno nuovo, che riuscisse in qualche modo a cogliere l’attenzione e a rimandare alla forza della band. Fu in quell’istante che Page tornò con la mente alle registrazioni di Beck’s Bolero, il brano in cui si era ritrovato a suonare con John Paul Jones, Jeff Beck e Keith Moon e John Entwistle degli Who.
L’idea di metter in piedi una nuova band era nata proprio in quell’occasione, quando Moon ed Entwistle avevano manifestato il proprio malcontento circa la loro avventura con gli Who e a Page sembrò naturale chiedergli di unirsi a lui e Jones. In quel clima goliardico e senza pressioni di alcun tipo, i due membri degli Who iniziarono a proporre possibili nomi per il gruppo, fino a quando uno dei due (entrambi negli anni si vantarono di esserne i creatori) disse che un gruppo del genere sarebbe andato a picco come un Lead Zeppelin, un dirigibile di piombo: «Keith era gasatissimo in quella session e disse che avremmo dovuto formare un gruppo stabile» raccontò Page.
“Ce ne stavamo seduti a spiattellare possibili nomi, ma alla fine fummo d’accordo che non era tanto importante il nome quanto il fatto che venisse accettata la musica. Mi stava a cuore Lead Zeppelin”. Sembrava calzare a pennello con tutto il resto. Aveva qualcosa a che fare con l’espressione popolare “una pessima battuta sale in alto come un palloncino di piombo”. Mi era rimasta in mente perché era buffa e poi mi piaceva quella connotazione pesante-leggero. Per evitare fraintendimenti fonetici, che avrebbero potuto far pronunciare la parola in due modi differenti, venne eliminata la a di lead per evitare di dover spiegare per anni come andasse pronunciato il nome della band.
Per aumentare i propri orizzonti, non restava che incidere il primo album, di cui Page si incaricò anche della produzione. Aveva così chiaro in mente il suono e la strada da percorrere che non voleva che nessun altro, al di là dell’ingegnere del suono Glyn Jhons, ci mettesse mano o potesse interferire col suo progetto.
La reunion a Londra
Alla fine di settembre del 1968, il quartetto si riunì quindi negli Olympic Studios di Londra. Dopo solo poche decine di giorni di prove e un breve tour, ai quattro bastarono trenta intensissime ore per assemblare uno dei debutti più influenti della storia della musica. Il tutto per un costo complessivo che si avvicinava alle millesettecento sterline. «Il vantaggio di avere una strategia così chiara è che ho tenuto i costi di registrazione al minimo. Abbiamo inciso tutto il primo album in trenta ore. È la verità. Lo so bene, perché ho pagato io le fatture. Ma non è stato così difficile, perché avevamo provato molto. Avevamo appena finito un tour in Scandinavia e sapevo esattamente che cosa volevo fare, sotto ogni aspetto. Sapevo dove inserire le chitarre e che sound volevo ottenere. Avevo tutto chiaro in mente».
Nonostante le tempistiche, Led Zeppelin mostrava già chiaramente molte delle peculiarità che li avrebbero resi celebri: varietà di stili, voglia di innovare gli standard blues e di improvvisare, folk e hard rock. Luci e ombre, come da programma. Robert Plant non risultò nei crediti dell’album, perché ancora vincolato dal suo vecchio contratto con la CBS, ma ciò non gli impedì di vivere appieno quell’esperienza così esaltante: «Led Zeppelin è stato creato in modo pragmatico e incisivo. Nessuno di noi conosceva a fondo gli altri. Il disco e l’improvvisazione che l’ha prodotto erano quello che erano ed è stata una sessione davvero rapida. C’erano canzoni che cominciavano e finivano nel modo prestabilito, come Communication Breakdown e Good Times, Bad Times, ma la cosa particolare del gruppo era l’estensione infinita delle parti strumentali, che era già pienamente in corso prima che incidessimo il primo disco e che sarebbe diventata una delle nostre peculiarità sul palco».
Tratto da Jimmy Page & Robert Plant, di Luca Garrò (Hoepli), in uscita venerdì 26 ottobre.